TRADIZIONI POPOLARI DELLA SETTIMANA SANTA - I Canti

“La Santa Cruci”, il canto polivocale della Settimana Santa è una delle componenti sonore più importanti della tradizione orale riesina e come molte altre lamintanze, “costituisce un commento al racconto mitico rappresentato dal rito” (Buttitta, 1978).
Gli storici locali non dedicarono particolari attenzioni ai canti della Settimana Santa, forse perché ritenuti poco importanti. Alcune informazioni sono state raccolte dalla viva voce di alcuni anziani; altre vengono dall’esperienza diretta all’interno del comitato organizzatore dei festeggiamenti. In questi anni, sia pure con tante difficoltà che nascono proprio per la mancanza di fonti [1], dopo scrupolose ricerche e attente riflessioni, si è scoperto che l’unica partitura, del canto in questione, risale ai tempi della recensione fatta da Alberto Favara nella provincia di Caltanissetta nel Maggio 1905 e pubblicata sul “Corpus di Musiche Popolari Siciliane” nel 1957 a cura di Ottavio Tiby.
Da allora, fino ad oggi, non si trovano notizie sui canti riesini, tranne che nel libro di Ignazio Macchiarella, “I Canti della Settimana Santa in Sicilia”, dove si legge: “i lamentatori di Sommatino distinguono nettamente il proprio repertorio da quello di altre località come Riesi e Caltanissetta che definiscono a crocchiu, cioè eseguito in maniera confusa e senza distinzione di ruoli fra le varie parti vocali”; questa descrizione, soprattutto sul modo di eseguire il brano, è in contrasto con quanto afferma Salvatore Carrubba [2]. Oggi, causa la mancanza di un ricambio generazionale e d’interventi mirati al recupero, il repertorio appare alquanto disgregato con il conseguente rischio di una reale estinzione. La tutela, la valorizzazione e la promozione, renderebbero fruibile uno dei canti, legati alla tradizione dei Misteri che si svolgono durante la Settimana Santa, che nel passato ha riscontrato un notevole apprezzamento in tutto il nisseno e non solo. Pertanto, appare necessario il recupero e la tutela di un così importante patrimonio culturale di tradizione orale come contributo per la riappropriazione della memoria storica del nostro paese e della nostra identità culturale per consegnarlo alle generazioni future. 

*** [1] Le parti della “Santa Cruci” sono state raccolte dalla viva voce di alcuni anziani, e trascritti su un volantino, per merito dall’allora parroco della Città Don Scuderi, alla fine degli anni ’70. Pubblicati anche nel libro di Giuseppe Testa; Riesi nella Storia - Centro Editoriale Archivio di Sicilia - Palermo - 1981.

*** [2] Salvatore Carrubba è l’ultimo dei Laudatanti rimasti, l’unico a saper interpretare i due modi, diversi l’uno dall’altro, del canto popolare riesino. Il Carrubba, oggi, è una delle fonti storiche viventi più importanti del nostro paese e grazie al suo contributo siamo riusciti a far luce su alcuni aspetti storici poco conosciuti.
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Agli inizi degli anni settanta, con la fondazione del Folkstudio, hanno inizio le indagini e lo studio della musica popolare siciliana, vengono condotte ricerche anche in alcuni paesi della provincia di Caltanissetta. In particolare le ricerche si concentrano sui repertori della Settimana Santa; poiché il rischio di una graduale disgregazione e i cambiamenti strutturali della società, rendevano urgente il recupero e la tutela di un così importante patrimonio culturale. 
Oltre il Folkstudio anche il CIMS ha promosso scrupolose raccolte sui repertori della Settimana Santa. Nella collezione del Folkstudio e dall’archivio Etnofonico del CIMS si trovano, tra l’altro, una quantità notevole di registrazioni sonore sui Canti della Settimana Santa. Si può costatare l’assenza di documenti riguardanti i repertori su Riesi; in Macchiarella si legge che, alcuni paesi, Riesi compreso, il Corpus di Favara, rappresenta l’unica fonte documentata: è probabile che la visita dei ricercatori abbia avuto esiti negativi, ciò è riferibile alla scomparsa delle squadre di “lamentatori” e, per questo motivo, non si è potuto provvedere alla registrazione del canto.

* “I repertori polivocali rappresentano senza dubbio l’elemento musicale tradizionale che maggiormente caratterizza la festa della Settimana Santa in Sicilia. Generalmente vengono denominati con il termine lamenti oppure lamintanze o ancora ladate o larate. Per indicare l’esecuzione si usa il verbo lamintari e non cantari.
Eseguiti sempre secondo modalità rigidamente formalizzate nel corso delle processioni o durante altre azioni rituali, svolgono funzioni di sonorizzazione degli spazi festivi e di scansione delle durate di ciascun atto collettivo.
Ciascun repertorio locale è formato da un numero diverso di brani che vengono chiamati parti. Le parti possono essere in latino, in italiano e in siciliano.
Le parti in dialetto presentano testi verbali molto lunghi che variano da paese a paese. Di solito essi narrano la passione e morte di Gesù, arricchendo la trama evangelica con episodi secondari di grande efficacia simbolica. Assai diffusi sono i testi che trattano il dolore della Madonna e quelli che descrivono la ‘ricerca’ di Gesù da parte della Madonna: temi estranei al racconto evangelico e di incerta provenienza.
Musicalmente tutti i repertori condividono la cosiddetta struttura modulare. I diversi brani, infatti, possono essere considerati come formati da blocchi stereotipi armonico-melodico-ritmici che suddividono le parti in più versi musicali ciascuno dei quali coincide generalmente con un verso del testo verbale” (I. Macchiarella, 1993). 

Il repertorio riesino, di canti polivocali o ad accordo, rappresentato dalla “Santa Cruci”, è formato da undici parti in dialetto che descrivono la passione e la morte del Cristo, il dolore della Madonna, nell’affannosa ricerca del figlio: il tema più importante per il paese durante la rappresentazione del rito sacro. Non mancano, come scrive Buttitta: “il dialogo della Madonna con gli artigiani incaricati di preparare gli strumenti della sua crocifissione”. In una delle parti viene descritto anche l’incontro “la giunta” che avviene la Domenica di Pasqua tra la Madonna e il Cristo risorto. 
In passato le “squadre” erano in stretto rapporto con le confraternite, ma a partire dalla seconda metà dell’ottocento, con la loro scomparsa, esse furono formate da persone di ogni ceto, compreso contadini e sopratutto “solfarai” che, oltretutto, per quasi un secolo e mezzo, furono gli organizzatori dell’evento festivo, lasciando all’organizzazione della festa elementi caratteristici a tratti evidenti negli odierni ritmi dell’attuale comitato.

* Racconta Salvatore Carrubba: “il repertorio presenta due modi di canto alla surfarara o caltanittisa e alla parrinisca. La parrinisca jè cchiu difficili, l’accumpagnamentu iè mpurtanti e avò essiri urdinatu e precisu (la parrinisca è più difficile, le risposte corali devono essere precise e ben coordinate). 
I modi si differiscono nella conduzione della parte solista e nelle risposte corali. Ogni parte può essere eseguita nei due modi”.

I repertori venivano tramandati oralmente da padre in figlio che con orgoglio facevano sfoggio della loro bravura e del loro sapere musicale. “in ambito popolare la musica è spesso percepita come ‘proprietà e le sue regole vengono trasmesse alla stregua di quelle inerenti qualsiasi altro apprendistato artigianale.” (Bonanzinga, 1992) 

L’esecuzione dei canti avveniva con una netta distinzione di ruoli tra le varie parti vocali - dice ancora Carrubba - “la parte solista, veniva eseguita da tre persone dette, prima, secunna e terza, mentre il coro era chiamato bassu. La prima e la secunna erano le uniche a svolgere il testo verbale, invece la terza eseguiva un lungo vocalizzo sulle ultime tre sillabe del testo verbale” - più o meno lungo e articolato, secondo la bravura dell’esecutore. Durante tutto il periodo quaresimale, le squadre di “lamentatori”, spesso in competizione tra loro, si riunivano ed eseguivano i brani in piazza davanti la Chiesa Madre, ai quattro canti e nei punti più importanti della manifestazione. I “solfarai” si riunivano in gruppo e, durante il tragitto, poco meno di due chilometri, che li portava dal paese alla miniera dove lavoravano, intonavano le “lamintanze” che venivano interpretate durante la Settimana Santa, “era un modo per dimostrare tutto l’anno l’attaccamento al Crocefisso e alla Religione”. (Macchiarella, 1993) 

Le “lamintanze” eseguite durante la Settima Santa riesina, hanno subito un disgregamento a causa della mancanza di un ricambio generazionale e rischiano l’estinzione; le squadre non esistono più e il repertorio viene esibito da una sola persona che esegue tutte e tre le parti vocali; mentre il coro è formato da persone, per lo più anziani, riunitesi casualmente. 

Riportiamo la trascrizione di una delle parti più caratteristiche: il dialogo della Madonna con il fabbro che prepara i chiodi della crocifissione: 


Maria passa di la strata nova

la porta d’un firraru aperta iera.

O caru mastru chi faciti a stura?

Fazzu ‘na lancia e tri pungenti chiova

Ppi lu Figliu amatu di Maria.

O caru mastru nun lu stati a fari

Ca di nova vi pagu la mastria.

O cara donna nun lu puzzu fari

Ca unna c’è Gesù ci mintinu a mia.

L’esempio si riferisce all’esecuzione della “sufarara”, registrata nel 1990, ed è eseguita da una sola persona che ripete tutte le tre parti vocali [1].
Alcuni riferimenti storici, bibliografici e altri, ancora oggi visibili, ci indicano quanto fosse importante questa festa per i “solfarai”.
Gaetano Baglio, nel suo libro “il Solfaraio 1905” scrive: “da molti anni i solfarai costumano celebrare a spese loro la festa del Venerdì Santo con musiche, mortaretti, illuminazione e lunghe processioni recanti ceri accesi. E perciò, all’atto di ricevere la paga di marzo, subiscono una ritenuta da parte dell’amministrazione della zolfara, ovvero, se la impongono di loro stessi spontaneamente. In quest’ultimo caso un collettore raccoglie l’ammontare delle ritenute,e, finita la colletta, porta il denaro, in guantiera scoperta e visibile a tutti, alla Chiesa, accompagnato dalla musica e da numeroso pubblico”.
Il Venerdì Santo da sempre rappresenta il momento topico di tutto il rito sacro, soprattutto all’uscita, dalla “Chiesa del Crocifisso”, dell’Addolorata accompagnata da San Giovanni, il discepolo prediletto dal Cristo.
La mattina del Venerdì, prima che il giorno abbia dissipato le tenebre, in uno scenario di dolore mistico, con una statua dal volto espressivo, in un’atmosfera di tristezza, inizia “la cerca” l’incessante e faticosa ricerca del figlio, per le strade di tutto il paese, da parte dell’Addolorata. La statua, portata a spalla dai fedeli, con un ritmo frenetico, si fa largo attraverso la folla, rievocando attimi di turbamento, sofferenza, angoscia. Nei giorni della festa, la statua si trasfigura diviene animata, è il santo (I. E. Buttitta 2002, pp. 29). I fedeli la implorano, piangono, cercano conforto, le vanno incontro per “pigliari paci”, le chiedono aiuto, la ringraziano per aver accolto le loro preghiere: è il raggiungimento del pathos. Il sacro si manifesta integralmente nello spazio e nel tempo è la “ierofania” nel suo senso più completo. (Riesi 1981, pp.61 sgg in I. E. Buttitta 2002, pp. 29).
Sembra di rivivere anche i momenti di disperazione delle donne che trepidanti correvano per le strade alla ricerca di notizie sui loro figli o mariti, dopo i disastri che accadevano all’interno delle miniere. Si potrebbe individuare un’osmosi tra la manifestazione del rito sacro e l’attività alquanto pericolosa dei “solfarai”. Possiamo notare che, ancora oggi, quasi a voler dimostrare il forte legame con il passato, ogni abitante si sente non solo spettatore ma anche protagonista, dolente ed esultante allo stesso tempo: dolente, per il ricordo del sacrificio del Cristo e del dolore della Madonna; esultante perché il Venerdì Santo era l’unico giorno feriale dell’anno in cui i “solfarai” non scendevano nelle miniere. Infatti, dopo i primi momenti di partecipazione accorata e triste, gradatamente l’atmosfera cambia e ci si ritrova in un clima di festosità, visibile dallo sparo di castagnole “li maschiati” che i fedeli offrono alla Madonna come sacrificio o per grazia ricevuta, e da un atteggiamento brioso da associare alla gioia dei minatori che quel giorno non scendevano negli “inferi” a rischiare la vita.
Da ricerche e studi fatti, oggi sappiamo che, sulla “Ladata a la Riisana”, c’è un’importante testimonianza trascritta su pentagramma, pubblicata sul Corpus di musiche popolari siciliani. Nel libro si riscontra una significante affermazione del Romagnoli, il quale sostiene che alcune “Ladate” “sono intessute di tali squisitezze da farci invincibilmente pensare all’aspirazione e alla cosciente potenza espressiva di un grande artista”. Sempre nello stesso volume del Favara, si osserva un’analisi critica del Tiby il quale afferma che in certe “Lamintanze”, in modo particolare quelle di Caltanissetta (nn. 695) e Riesi (nn.673), si sente l’influsso della melopea gregoriana a tratti percepibile anche nei melismi, tanto che, Calogero Bingo, “solfaraio” di Caltanissetta, annotava al Favara nel 1905: “Li riisani ci partinu a la parrinisca, ed è una bella cosa”.
Ciò fa pensare che il termine “parrinisca” sia di provenienza clericale, infatti, il termine “parrinu”, a Riesi, si usa per indicare il prete. “L’origine liturgica delle lamentanze e la irrilevanza dei contenuti, al momento della esecuzione e fruizione, rispetto al piano melodico, è provata dagli stessi testi” (Buttitta, 1978). La “surfarara”, invece, è stata probabilmente mutuata dalla “parrinisca” e che i “solfarai” l’abbiano interiorizzata rendendola propria anche nel modo di eseguirla, dandole una particolare inflessione gutturale derivata dalle condizioni di lavoro svolto in un ambiente tenebroso, dove l’emozione di natura drammatica trasforma ogni cosa, così come il canto che diventa una melodia lamentosa. “ll valore simbolico dell’espressività musicale emerge poi significativamente nelle denominazioni che localmente assumono i ‘modi’ melodici su cui vengono intonati i canti tradizionali. Tali denominazioni segnalano il più delle volte un’appartenenza territoriale (palermitana, trapanisa, girgentina, siracusana) oppure una condizione professionale (carrittera, viddanisca, surfatara, furnarisca). [Bonanzinga, 1992]

*** [1] Trascrizione effettuata dal Prof. Andrea Ferrante, docente di didattica musicale al conservatorio Bellini di Palermo.
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Alla luce di quanto esposto risulta evidente che “la Santa Cruci” fosse conosciuta ed apprezzata ai tempi della recensione del Favara, e lo dimostra anche il fatto che a rappresentare il brano sia stato non un riesino ma, Francesco Corrente di Caltanissetta (vedi nota nel Corpus). Appare evidente che alcune squadre di cantori riesini si recassero, in occasione delle feste, a Caltanissetta per esibire il proprio repertorio.
Conferma che ci viene data anche dal libro di Ignazio Macchiarella, dove in una nota si legge: “nel giovedì Santo, come in antico, anche oggi (a Caltanissetta) accorrono dai paesi vicini parecchie comitive di laudatanti, spesso inviati e pagati dai ceti, e talora anche spontaneamente, con la speranza di guadagnarsi due paia di tarì”. (Michele Alesso, 1903). L’ulteriore testimonianza del Carrubba, ratifica quanto detto: “verso la metà degli anni settanta, mentre c’era ancora parroco Don Scuderi, un gruppo di cantori ci recammo a Caltanissetta e partecipammo ad una manifestazione canora della Settimana Santa, in quell’occasione riscontrammo un grande successo, vincendo il primo premio”. Ciononostante appare strano come la “ladata a la riisana” (nn. 673) non abbia avuto la meritata attenzione da parte degli studiosi del settore, rimanendo segregata nelle pagine di un libro, sia pure famoso.
Secondo la convenzione “For the Safeguarding of the Intagibile Cultural Heritage”, “le eredità culturali intangibili sono trasmesse di generazione in generazione e sono costantemente riprodotte dalle comunità e dai gruppi, adattandole al loro ambiente, alle loro interrelazioni con la natura e alle condizioni storiche della loro esistenza. Esse forniscono alle popolazioni il senso della loro identità e continuità, e la sua salvaguardia promuove, sostanzia e sviluppa la diversità culturale e la creatività umana”.
Le leggi 80/77 e 116/80, riconoscono i beni etno-antropologici fra quelli soggetti a tutela, feste e canti compresi: oggi considerati beni immateriali.
Il nuovo codice dei beni culturali (n. 42 del 2004), riconosce e include nelle categorie speciali anche le registrazioni sonore. Da qui nasce l’idea di rivolgersi al Centro Regionale per la Catalogazione e la Documentazione dei Beni Culturali - Servizio Documentazione Unità operativa IX Nastroteca – Discoteca, dove abbiamo già consegnato e fatto catalogare una registrazione audio della “Santa Cruci”, effettuata nel 1990 ed un’altra, audiovisiva, registrata quest’anno durante la processione con l’Urna che si reca verso il calvario per accogliere le spoglie del Cristo morto, il momento di massima intensità espressiva.


Canti popolari raccolti dalla viva voce di alcuni anziani
I versi e la disposizione non sono perfetti, tuttavia li trascriviamo
affinché non vadano perduti e perché servano di base per
una più accurata stesura, man mano che sarà possibile avere altri
testi o referenze.
 

1. L'Angilu Gabrieli fu spunutu
ca di lu 'ternu Patri fu mannatu
'nterra è natu lu nostru Signuri
patruni di lu celu, terra e mari.
Di nomu ci fu misu Sarbaturi
la cristianità vulia sarbari.
Assai foru l'inimici du Signori
e ppi la so ruvina a cungiurari.

2. Dudici discipuli du Signori
cci vulivanu un beni ddi muriri
ma Giuda crudeli e tradituri
luntanu di tutti vuliva sempri stari.
Un gnornu cci lu dissi lu Signori
tu si cchiddu ca mia ma tradiri.
Fu Giuda ca tradì a lu Sjgnuri
si lu vinnì ppi trenta dinari.
Ma doppu sinni pintì di lu so errori
e ndi n'arbulu di ficu sii affucari.
 
3. Cristu era attaccatu e camina
quannu si vitti amminzu a li juidia
cu cci dava pugna e ccu cci dava ammuttuna
davanti alla gran curti lu purtaru.
Alza la manu lu marcu judia
na masciddrata a lu Signuri cci dava,
San Pitru si risviglia curaggiusu
ccu na spatata l'uricchi ci tagliava.
Diu era lu Figliu di Maria,
era attaccatu e’n terra si calava
 
4. Maria passa di la strata nova
la porta d’un firraro aperta iera.
O caru mastru chi faciti a stura
Fazzu na lancia e tri pungenti chiova
Ppi lu Figliu amatu di Maria.
O caru mastru nun lu stati a fari
Ca di nova vi pagu la mastria.
O cara donna nun lu puzzu fari
Ca unna c’è Gesù mintine a mia.
 
5. Maria va circannu a lu Signori
ne strati ne curtigghia nu lu po truvari
chiamannu sempre Figliu Sarbaturi
sula senza di tia cuomu aie a fari?
Chiamatimi a Giuanni ca ì lu vuogliu
Qunatu mi duna un pocu di cunsigliu.
Giuanni curri alla chiamata di Maria
Diciennuci chi bua Tu di mia?
Giuanni dimmillu tu unnè ma figliu
Ca ì lu circu e nun lu puozzo asciari
Vattinni ddi Pilatu ca lu trovi
Alla colonna incatinatu.
 
6. Maria, nuovamente lu circava
Ee nun c'era .strata can un ci iva
a tutti, idda, la genti spiava
l'aviti vistu a ma figliu, diceva:
 

Nessunu ' notizzi cci nnidava
idda pariva donna ca chiangiva
cu la vuci .forti gridava
Figliu nnuccenti ‘mparami la via …
 
7. La cunnanna finì di lu Signuri
Lu portano a colonna a frigillari
Erodi era lu capu ‘mpusturi
ca Cristu fici cunnannari.
Annu putiri a Gesù Nazarenu
e quanti guai e di stridi ci fannu.
La facci sua ‘mpinta cu lu terrenu
ca iddi ancora minnitti ci fannu.
Diu era scasu e nudu camminava
la so figura nun si canusciva.
Erodi ppi magari lu pigliava
 
8. La cruna di spini cci chiantaru
di mani e pedi sangu cci corriva
pidda cruci pisanti tri voti cadia.
Quantu pisanti la Cruci puntava
ca tuttu lu munnu 'ncoddu tinta
tri voti cadì 'nterra lu Signori
du boni lu vinniru aiutari
canuscennu ca era lu Signori
davanti sì cci iru 'nginucchiari
prigannulu di cori: Ridinturi
min Diu, n'aviti a pirdunari.
 
9. Abiviri ci dettimi vilenu
ppi fallu moriri a manu a manu.
Cristu sinnì a la Cruci e Maria vinni
cu Marta, Maddalena e San Giuvanni
"Anelli la matri a vidiri ti vinni
là 'ncruci tannu misu sti tiranni,,
Quantu ci vasu sti sacrati carni.
Trentatri anni ppi lu munnu spertu
senz'aviri nura di cumpuortu.

10. Cristu ca la Cruci fu 'nchiudato
amminzu a ddu latruni fu mintutu
Cristu quannu iappi la lanciata
prufunna fu la sò firita.
Pigliatimi ssa scala ca ma figlia scinni
quantu ci vasu ssi sacrati carni.
 
11. Alu terzo jornu anniviscì lu Signori
e tutta la terra si misi a trimari
Maria sin ncuntrà ccu lu Signori
e forti a lu so pittu lu strincini
cci dissi: Figliu nu 'abbannunari ca
senza di tia non puozzu stari.

12.ORA NUN CANTU CCHIU’ MUTU MI STAIU

VIVA LA MISERICARDIA DI DIU!


- Testo tratto da Tradizioni popolari Riesine.
** Esprimo il mio doveroso e sentito ringraziamento all' amico Vincenzo Scibetta per avermi fornito il materiale documentario occorrente a realizzare questa scheda monografica sulla Settimana Santa di Riesi.